Immagini, immaginari e immaginazione


L’Ovest americano ha sempre occupato un posto speciale nell’immaginario di tutto il mondo. La sua “ultima frontiera” è stata una linea mobile che si spostava di continuo con le carovane dei pionieri in cerca di terra e fortuna. Una linea che si è arrestata solo lungo la costa dell’oceano Pacifico, grosso modo nel 1890, quando la conquista del far west ebbe termine.

I racconti delle esplorazioni, dei viaggi, delle praterie sconfinate, dei deserti, delle montagne colorate hanno riempito pagine di libri e chilometri di pellicole cinematografiche. Hanno acceso l’immaginazione di autostoppisti, biker, amanti dei viaggi on the road. Ma prima ancora, negli anni ’30, hanno spinto famiglie intere e orde di disperati a migrare dal midwest, per fuggire alla siccità causata dalle tempeste di sabbia nel Dust Bowl.

La tragedia di quel periodo, ma anche la bellezza dei luoghi del lontano west stimolarono alcuni grandi talenti. Nacquero qui molte delle immagini iconiche che appartengono alla storia della fotografia. Impegnati sul fronte documentaristico troviamo Dorothea Lange, Walker Evans, Arthur Rothstein (solo per citarne alcuni). Mentre Ansel Adams votava la sua arte alla salvaguardia dei parchi americani, nel 1936 nasceva la rivista LIFE e NATIONAL GEOGRAPHIC arricchiva i resoconti delle sue esplorazioni con fotografie a colori. Il mondo, con le sue storie e le sue meraviglie, viaggiava ovunque sulle pagine nei grandi magazine illustrati.

Fu l’epoca d’oro del fotoreportage e della fotografia documentaristica. L’immaginario collettivo si rispecchiava nelle immagini che a loro volta alimentavano l’immaginazione.



Poi è stato il turno della tv, con i film, le serie. L’obiettivo in America si è spostato sempre più sulle grandi città, sulla vita moderna. Storie di casalinghe disperate, di single incallite, di distretti di polizia, corsie d’ospedale e pronto soccorso. L’immaginario è cambiato: meno cowboy e più investigatori, meno case nella prateria e più grattacieli.

Per fortuna, però, ci sono i fratelli Cohen. Ecco, l’America che ho visto io, nei deserti tra California e Arizona, costeggiando Nevada e Messico, l’ho trovata più simile alle atmosfere surreali di “Non è un paese per vecchi”, capolavoro ispirato all’omonimo romanzo di Cormac McCarthy. E mi ha spiazzato.

Comunità fondate nel deserto. Minuscoli centri abitati (forse) fatti di roulotte e camper arenati. Nomi esotici che sconvolgono la geografia, come Bombay Beach e Bagdad. Avamposti nati intorno a uffici postali, pompe di benzina, piccoli empori, cui oggi si sono aggiunti gli immancabili fast food, i motel tutti uguali, improbabili campi da golf, ma poco altro.

Luoghi che per testimoniare la propria esistenza sembra non abbiano altra alternativa se non entrare nel Guinness dei Primati. Ecco allora il termometro più alto al mondo a Baker (un cartello alto 41 metri che commemora la temperatura record di 134 gradi Fahrenheit – 57°C – registrata nella vicina Death Valley il 10 luglio 1913); l’asta da bandiera più alta al mondo (184 piedi – 56 m) di Calipatria, che trovandosi ad un’altitudine di -55 m sotto il livello del mare, si è inventata questo sistema per far sì che la bandiera nazionale sventoli comunque sopra il livello delle acque; il bacino endoreico di Badwater che con i suoi 86 metri sotto.l.m. è ritenuto il punto più basso del Nordamerica.

E poi ci sono luoghi in pieno deserto che qualcuno ha deciso di abitare e non si capisce perché. O meglio, studiando un po’ si apprende che nella corsa per ritagliarsi un angolo di paradiso, per trovare fortuna, o semplicemente per sopravvivere, sono nate località come Palm Springs, Bombay Beach, Quatzsite, dai nomi affascinanti, ma dall’aspetto polveroso e ventoso, con la sabbia del deserto così fine, che te la porti a casa nei vestiti, nelle scarpe, nella macchina fotografica.

Dopo i migranti, i predicatori e le sette più disparate, qui sono arrivati gli hippy e gli artisti in cerca di un luogo per esprimersi liberamente, continuando così ad alimentare il mito di queste terre.


LIBRO CONSIGLIATO: Furore, di John Steinbeck

COLONNA SONORA: It never rains in Southern California, di Albert Hammond

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