In Tunisia, tra le oasi che fronteggiano le sabbie del Sahara


La Tunisia, incuneata nel cuore del Nordafrica, tra il blu del Mediterraneo e la sconfinata distesa sabbiosa del Sahara, ha nelle sue oasi un patrimonio di tradizioni, risorse e biodiversità che sta cercando di valorizzare attraverso una serie di progetti di salvaguardia e sviluppo sostenibile. 

Con un’estensione complessiva di 40.800 ettari, le oasi ospitano circa il 10% della popolazione tunisina. Distinte in oasi del Sahara (76,8%), montane (5,8%) e litoranee (17,3%), sono classificate in tradizionali e moderne.

Le prime, irrigate da falde acquifere i cui livelli si stanno abbassando considerevolmente, in genere sono costituite da vecchie piantagioni, di piccole dimensioni e frammentate, con una superficie vegetativa a tre strati (suolo, vegetazione, alberi da frutta e palme), alta densità di alberi (circa 400 per ettaro), ma raccolti poco abbondanti.



Di contro quelle moderne, oggi circa il 50%, sviluppate negli ultimi decenni con la creazione di nuovi perimetri irrigati dedicati alla coltivazione delle palme da dattero (prevalente è la monocoltura della palma da dattero Deglet Nour), hanno un’estensione media più ampia, densità di piante inferiore (100-125 alberi per ettaro), produttività più alta. Si trovano in genere a valle delle oasi tradizionali, vengono irrigate utilizzando falde di profondità e drenando acqua fossile. Spesso sono illegali e non controllate, e competono con effetti negativi con quelle tradizionali.

Per questo motivo il Ministero degli Affari Locali e dell’Ambiente nel corso degli anni ha attivato e messo in programma una serie di progetti per la salvaguardi delle oasi tradizionali e controllo di quelle moderne, con l’intento di generare delle ricadute benefiche su diversi piani.

Finanziato dalla Banca Mondiale e dal Fondo per l’ambiente, il primo piano quinquennale denominato “Ecoturismo e conservazione della Biodiversità del deserto in Tunisia” (Ecotourism and Conservation of Desert Biodiversity) ha come scopo di contribuire alla conservazione della diversità e la durabilità delle terre desertiche attraverso una gestione delle risorse naturali e degli ecosistemi nelle aree individuate, con investimenti in progetti di turismo ecosostenibile e la creazione di meccanismi per favorire lo sviluppo del settore privato.

Al momento sono stati finanziati 226 microprogetti, di cui 197 espressi da micro-imprese e 29 su base comunitaria.

Il secondo piano, denominato invece “Progetto di gestione sostenibile del paesaggio delle oasi” (Sustainable Oasis Landscape Management Project), è dedicato alla salvaguardia, protezione e sviluppo dell’ecosistema delle oasi, della loro biodiversità, ma anche del paesaggio e del retroterra culturale che esprimono da secoli, e garantire così il loro ruolo, fondamentale e storico, di teatro delle attività umane sociali ed economiche nella regione.

Particolare attenzione è rivolta alle donne, che hanno sempre avuto un ruolo di rilievo nelle economie rurali, ma spesso con un carico di ore di lavoro più gravoso degli uomini, a fronte di salari inferiori e un diverso accesso al credito, all’istruzione e alle risorse in genere.



Prima della crisi finanziaria globale e della rivoluzione dei Gelsomini del 2010-11, la Tunisia, che aveva investito in modo significativo in settori chiave della società, era una delle economie maggiormente in crescita all’interno della regione MENA (Middle East and North Africa). Attiva fin dagli anni ’60 nella promozione dei diritti femminili e l’accesso delle donne a formazione e sanità, nel 2014 ha adottato una Costituzione considerata tra le più progressiste nel mondo arabo e musulmano.

Almeno sulla carta si garantiscono equità per tutti i cittadini (articolo 20), condizioni di lavoro umane e parità di salario (articolo 40), mentre nel 2016 l’articolo 49 viene modificato per garantire alle donne maggiore partecipazione alle politiche locali. 

La realizzazione di questi progetti si inserisce nell’ottica del miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni di questi territori, in particolare, ma del paese in generale, perseguendo politiche di adattamento alle sfide innescate dai cambiamenti climatici, per scardinare i rischi di derive politiche ed economiche, ed arrivare ad una nuova rinascita. 


LIBRO CONSIGLIATO: Il tè nel deserto, di Paul Bowles

COLONNA SONORA: The sheltering sky, di Ryūichi Sakamoto

ACCOMPAGNATO DA: Brick tunisienne à l’oeuf (la ricetta qui). Per la preparazione della pasta da brick, trovate qui tutte le indicazioni.


Io a Kairouan (in arabo: القيروان‎, al-Qayrawān), in una bella foto fatta dalla mia amica Greta
(seguitela sul suo blog The Greta Escape)

Luce e riti di passaggio: “Solve et coagula”


La Terra è ormai a metà strada nel suo viaggio annuale intorno al Sole. Mancano pochi giorni. Nell’emisfero boreale, il nostro, questo significa il periodo di maggior luce. E la luce porta calore. Porta estate. Porta la vita.


Sole di Mezzanotte nell’Eyjafjörður, in Islanda

I prossimi giorni saranno i più luminosi dell’anno. E più a nord si sale, più questo trionfo è clamoroso. Ad Akureyri, l’altra “grande” città islandese, detta la capitale del nord, nella notte tra il 20 e il 21 giugno ci sono esattamente 23 ore 29 minuti e 02 secondi di luce, con il sole che tramonta alle 0:58 e sorge alla 1:29. A dire il vero, più che tramontare, scivola sotto la linea dell’orizzonte per riapparire 30 minuti e 58 secondi dopo, poco più in là. Buio non diventa mai.



Un fenomeno naturale, ciclico, che dall’alba dei tempi ha scandito anche le vite degli uomini. E ne ha definito le credenze.

Si pensi all’allineamento dei monoliti di Stonehenge, posizionati strategicamente per seguire il percorso dell’astro solare nel corso dell’anno, intercettato nei due momenti chiave del solstizio d’estate e in quello d’inverno. [Per la cronaca, quest’anno, causa Covid-19, non sarà possibile recarsi sul posto il 20 giugno per assistere all’evento, ma verrà organizzata una diretta streaming (si veda pagina FB). Il cielo su Stonehenge è visibile virtualmente da questo link in qualsiasi momento, o visitando il sito English Heritage.]

Molti riti pagani celebrano la vittoria del Sole sulle tenebre e il suo incontro con la Luna. Da qui partono tutte le suggestioni legate ai riti per propiziare l’amore e la fertilità, come la festa di Juhannus in Finlandia, o la celebrazione del Jāņi in Lettonia, tutte di matrice pagana, poi riassorbite nel culto pagano di San Giovanni. In Lituania, tra il 23 e 24 giugno si tiene la Festa della Rugiada, tra ghirlande di fiori e gradi falò, simbolo di catarsi e purificazione.

In Islanda il 24 si festeggia la Jónsmessa, ovvero la Messa di San Giovanni Battista. Anche qui l’omaggio al santo cristiano ha cercato di cancellare le tradizioni e le superstizioni della mitologia norrena, senza troppo successo: è il giorno in cui le foche possono tramutarsi in persone, le mucche parlare e gli elfi entrare in contatto con esseri umani.

Di base tutta questa luce, la sua energia, la vitalità della Natura al suo apice creano le condizioni per un contatto diretto con il divino, con il mondo spirituale. Un momento importante per tutte le creature, che sicuramente vale la pena, se non di festeggiare, almeno di osservare. Un evento che quest’anno, dopo una primavera particolarmente “buia” e difficile forse acquisterà di nuovo significato.

Il solstizio d’estate è una notte luminosa che per secoli ha acceso le menti. È una notte alchemica, dove energia e materia, principio femminile e maschile si incontrano, si uniscono. Si crea un’occasione di ribaltamento (il sole inverte il suo cammino), un momento di riflessione per passare da una visione verso l’esterno, ad una interiore. Di qui il motto alchemico “Solve et coagula”, che auspica la dissoluzione delle negatività e la concentrazione di impulsi positivi.


Luna del Sole di Mezzanotte
Incontro tra la Luna e il Sole di Mezzanotte

LIBRO CONSIGLIATO: Sogno di una notte di mezz’estate, William Shakespeare

COLONNA SONORA: Rapsody in Blue, di George Gerswin, nella sua esecuzione originale del 1924.

ACCOMPAGNATO DA: qualche goccia di acqua di San Giovanni, a base di fiori di campo (tra cui l’Iperico, o fiore di san Giovanni, lavanda, rosmarino, salvia, petali di rosa, menta ed altri – vedi ricetta) raccolti e lasciati in una bacinella d’acqua, esposta alla rugiada nella notte del 23 giugno.

Secondo la tradizione è un ottimo rimedio contro le malattie, ma tiene lontano anche sfortuna e negatività. Di sicuro è piacevole e profumata, un ottimo tonico per la pelle.


L’acqua di San Giovanni preparata lo scorso anno.

Immagini, immaginari e immaginazione


L’Ovest americano ha sempre occupato un posto speciale nell’immaginario di tutto il mondo. La sua “ultima frontiera” è stata una linea mobile che si spostava di continuo con le carovane dei pionieri in cerca di terra e fortuna. Una linea che si è arrestata solo lungo la costa dell’oceano Pacifico, grosso modo nel 1890, quando la conquista del far west ebbe termine.

I racconti delle esplorazioni, dei viaggi, delle praterie sconfinate, dei deserti, delle montagne colorate hanno riempito pagine di libri e chilometri di pellicole cinematografiche. Hanno acceso l’immaginazione di autostoppisti, biker, amanti dei viaggi on the road. Ma prima ancora, negli anni ’30, hanno spinto famiglie intere e orde di disperati a migrare dal midwest, per fuggire alla siccità causata dalle tempeste di sabbia nel Dust Bowl.

La tragedia di quel periodo, ma anche la bellezza dei luoghi del lontano west stimolarono alcuni grandi talenti. Nacquero qui molte delle immagini iconiche che appartengono alla storia della fotografia. Impegnati sul fronte documentaristico troviamo Dorothea Lange, Walker Evans, Arthur Rothstein (solo per citarne alcuni). Mentre Ansel Adams votava la sua arte alla salvaguardia dei parchi americani, nel 1936 nasceva la rivista LIFE e NATIONAL GEOGRAPHIC arricchiva i resoconti delle sue esplorazioni con fotografie a colori. Il mondo, con le sue storie e le sue meraviglie, viaggiava ovunque sulle pagine nei grandi magazine illustrati.

Fu l’epoca d’oro del fotoreportage e della fotografia documentaristica. L’immaginario collettivo si rispecchiava nelle immagini che a loro volta alimentavano l’immaginazione.



Poi è stato il turno della tv, con i film, le serie. L’obiettivo in America si è spostato sempre più sulle grandi città, sulla vita moderna. Storie di casalinghe disperate, di single incallite, di distretti di polizia, corsie d’ospedale e pronto soccorso. L’immaginario è cambiato: meno cowboy e più investigatori, meno case nella prateria e più grattacieli.

Per fortuna, però, ci sono i fratelli Cohen. Ecco, l’America che ho visto io, nei deserti tra California e Arizona, costeggiando Nevada e Messico, l’ho trovata più simile alle atmosfere surreali di “Non è un paese per vecchi”, capolavoro ispirato all’omonimo romanzo di Cormac McCarthy. E mi ha spiazzato.

Comunità fondate nel deserto. Minuscoli centri abitati (forse) fatti di roulotte e camper arenati. Nomi esotici che sconvolgono la geografia, come Bombay Beach e Bagdad. Avamposti nati intorno a uffici postali, pompe di benzina, piccoli empori, cui oggi si sono aggiunti gli immancabili fast food, i motel tutti uguali, improbabili campi da golf, ma poco altro.

Luoghi che per testimoniare la propria esistenza sembra non abbiano altra alternativa se non entrare nel Guinness dei Primati. Ecco allora il termometro più alto al mondo a Baker (un cartello alto 41 metri che commemora la temperatura record di 134 gradi Fahrenheit – 57°C – registrata nella vicina Death Valley il 10 luglio 1913); l’asta da bandiera più alta al mondo (184 piedi – 56 m) di Calipatria, che trovandosi ad un’altitudine di -55 m sotto il livello del mare, si è inventata questo sistema per far sì che la bandiera nazionale sventoli comunque sopra il livello delle acque; il bacino endoreico di Badwater che con i suoi 86 metri sotto.l.m. è ritenuto il punto più basso del Nordamerica.

E poi ci sono luoghi in pieno deserto che qualcuno ha deciso di abitare e non si capisce perché. O meglio, studiando un po’ si apprende che nella corsa per ritagliarsi un angolo di paradiso, per trovare fortuna, o semplicemente per sopravvivere, sono nate località come Palm Springs, Bombay Beach, Quatzsite, dai nomi affascinanti, ma dall’aspetto polveroso e ventoso, con la sabbia del deserto così fine, che te la porti a casa nei vestiti, nelle scarpe, nella macchina fotografica.

Dopo i migranti, i predicatori e le sette più disparate, qui sono arrivati gli hippy e gli artisti in cerca di un luogo per esprimersi liberamente, continuando così ad alimentare il mito di queste terre.


LIBRO CONSIGLIATO: Furore, di John Steinbeck

COLONNA SONORA: It never rains in Southern California, di Albert Hammond

Album del 1972

PASSATEMPO: come fare dei perfetti aeroplani di carta

Schema da stampare


Per arrivare là, dove nessun uomo è mai giunto prima


Bruce Chatwin, cercando di spiegare il bisogno di viaggiare che abbiamo, scrisse “L’uomo, umanizzandosi, aveva acquisito insieme alle gambe diritte e al passo aitante un istinto migratorio, l’impulso a varcare lunghe distanze nel corso delle stagioni; questo impulso era inseparabile dal sistema nervoso centrale; e quando era tarpato da condizioni di vita sedentarie trovava sfogo nella violenza, nell’avidità, nella ricerca di prestigio o nella smania del nuovo.”

Di certo non sappiamo molto sui primi Sapiens, ma da più parti la natura nomade dei primi gruppi sociali umani è data per assodata. Un tempo ci si metteva in viaggio per procurarsi il cibo, dietro alle mandrie di animali che non avevamo ancora domesticato. Gli spostamenti erano regolari, ciclici in base all’andamento delle piogge e delle stagioni.

Poi, ad un certo punto, gradualmente, ci siamo “fermati”. Con la scelta di una casa, domus, siamo diventati domestici e abbiamo addomesticato, passando ad economie più stanziali. Ma l’istinto al movimento è rimasto comunque radicato nella nostra corteccia cerebrale, epicentro anatomico della nostra irrequietezza.


C’è un sito archeologico in Turchia, Göbeklitepe, la “Collina Panciuta”, che racconta di questa trasformazione. Un salto in dietro nel tempo di 12 mila anni. Oggi più simile ad un grande ombelico che a una pancia (traduzione di göbek), il grande scavo narra di quando animali ormai scomparsi rappresentavano la quotidianità per gli uomini che in quell’area costruirono per la prima volta un edificio religioso. La datazione è sorprendente e ha gettato nello scompiglio non pochi studi e studiosi: siamo tra il 9600 e il 8200 a.C.

Per capirci: altri esempi di luoghi più antichi che testimoniano la presenza umana sono grotte, mentre le strutture edificate dalla mano dell’uomo finora rinvenute sono ben più recenti (tra i più famosi: il tumulo di Newgrange in Irlanda fu eretto nel 3200 a.C., Stonehenge nel 3000 a.C., la Grande Piramide di Giza risale al 2560 a.C.). Per il momento Göbeklitepe viene considerato il primo edificio religioso e il più antico sito megalitico al mondo.

Agricoltura e allevamento nacquero a poche decine di chilometri da qui, nelle pianure dell’Anatolia orientale, la Mezza Luna Fertile, tra Tigri ed Eufrate. L’uomo cominciò a cambiare vita e da nomade, cacciatore e raccoglitore, divenne agricoltore e allevatore.

Da allora abbiamo continuato a spostarci, certo, perché di mondo da scoprire, ce n’era ancora tantissimo. La Natura, in tutte le sue manifestazioni, continuava ad essere la divinità da placare e blandire. Gli sciamani, seduti in trance sui loro tappeti, compivano viaggi nello spazio e nel tempo per raggiungere gli spiriti e contrattarne i favori. E forse da qui e dall’uso di avvolgere il corpo dei defunti in tappeti dai disegni simbolici, per accompagnarli nell’aldilà, nasce la suggestione dei tappeti volanti e le loro proprietà magiche. La metafora della tessitura accomuna questo antico manufatto al lavoro delle Moire (le Parche latine), che tessevano il destino della vita umana. I nodi, l’intreccio, i colori, i disegni sono quindi potenti strumenti per fare di un oggetto di uso comune un mezzo di comunicazione con mondi lontani nello spazio e nel tempo.

Ed ecco allora i riti sciamanici di guarigione legati al Tappeto del Mondo, la terra che si trasfigura e diviene spazio di preghiera (come per i Musulmani), o i racconti di viaggi fantastici che popolano le favole della narrativa medio-orientale. La possibilità di spostarsi velocemente nello spazio e nel tempo è un sogno che si perpetua dal tappeto volante alle astronavi della fantascienza. E se in moltissimi oggi conoscono la saga di Star Trek, forse non tutti sanno che tra i primi a usare il teletrasporto su un tappeto volante fu Re Salomone.

Per la cronaca, il tappeto più antico al mondo, arrivato quasi intatto fino a noi, risale al V secolo a.C. Rinvenuto congelato, nel 1949, durante gli scavi di una tomba sui monti Altaj, a sud di Novosibirsk, nella valle di Pazyryk, custodiva le spoglie di un nobile Scita, tribù seminomade che abitava le distese dell’Eurasia a nord della Grecia, Mesopotamia, Persia e Cina. Oggi il tappeto di Pazyryk si trova qui al Museo dell’Hermitage di San Pietroburgo. Non sarà volante, ma di strada ne ha fatta tanta.


LIBRO CONSIGLIATO: Sapiens. Da animali a dei, di Yuval Noa Harari

COLONNA SONORA: Musica Sufi

ACCOMPAGNATO DA: innumerevoli bicchieri di çay (tè), orta kahve (caffè in tazza alla turca), oppure, in inverno una bella tazza di sahlep (bevanda ottenuta sciogliendo della farina sahlep, derivata dalle radici di un’orchidea selvatica, in una tazza di latte caldo e cannella).


Contrattempi e fuoriprogramma: colpa del caso o colpo di fortuna?


Cosa sarebbe stata l’Odissea, se Ulisse da Troia se ne fosse tornato dritto a casa, senza che gli si mettessero di traverso gli dei e il fato? Il suo viaggio è un’apoteosi di contrattempi e fuoriprogramma. Ulisse viene indicato con epiteti fissi (definizioni usate per riferirsi a lui senza nominarlo) che sono chiaro sintomo di astuzia: uomo dai «mille inganni» (in greco antico: πολυμήτις, polymétis), «ingegnoso» (πολυμήχανος, polyméchanos), insomma, non è uno che si fa fregare facilmente. Eppure neanche lui riesce a prevedere ed evitare di peregrinare per molti anni prima di poter tornare a Itaca.

Sotto questa luce sembra del tutto vano e vanesio ogni nostro tentativo di pianificare un viaggio. E non solo quello.

Anziché lasciarsi andare allo sconforto o alla rassegnazione, meglio partire già con l’idea che qualcosa non andrà come ce la siamo immaginata, pre-vista, pianificata. Riuscire a ribaltare la prospettiva è un’arte che va praticata costantemente.

Uno degli imprevisti migliori che mi sia capitato nei miei viaggi è stato l’allagamento della pista all’aeroporto di Iquitos, l’anno scorso, nel cuore della foresta amazzonica, in Perù.


Stando alla meteorologia, tra febbraio e marzo la stagione delle piogge volge al termine. Gli acquazzoni sono meno frequenti e meno violenti, ma l’acqua rende impraticabili le vie di terra, lasciando due opzioni per muoversi: la barca o l’aereo. Per spostarci da Iquitos (che si trova in piena foresta amazzonica) ai villaggi che intendiamo visitare lungo lo Yavarì prenotiamo 6 biglietti per un volo dall’aeroporto militare della città. Il mese prima di partire accumulo mail su mail, su messaggi WhatsApp, e scambi via messager tra Giovanni, che ha organizzato il viaggio, ma nel frattempo è in Argentina, la nostra guida che vive a Iquitos e gli altri membri del gruppo, con la Bea che è già in giro per il Perù da qualche settimana.

Porto con me l’operativo viaggi di tutti (ognuno arriva da aeroporti diversi), doppia copia dei biglietti aerei, una per me e una per ogni compare, copia dei passaporti. Scaramanticamente mi registro persino, e con me tutti gli altri, sul sito della Farnesina. La prima parte del viaggio va via liscia: ci ritroviamo tutti puntualmente a Iquitos. Qui compriamo amache, stivali e quel che ci manca. Componiamo il bagaglio con attenzione, perché i chili che possiamo portare sul piccolo aereo sono limitati e ogni aggiunta è a peso d’oro. Ci presentiamo in largo anticipo all’imbarco, felici che tutto vada secondo i nostri piani.

Ma eccolo lì, ad aspettarci, l’imprevisto che ci terrà a terra per un lungo preziosissimo giorno: le piste sono piene d’acqua. Non parte e non arriva nulla. Dopo qualche ora passata a contrattare, riusciamo a farci mettere sul volo ri-pianificato per il giorno successivo, in idrovolante, che decollerà pioggia permettendo. I militari della base sono già al lavoro per preparare il mezzo, l’unico in grado di alzarsi in aria.

Dopo una notte passata a sperare e qualche ora di nervosa attesa in aeroporto, aspettando che spiova, riusciamo a partire. L’oceano di alberi e piante sotto di noi è indescrivibile nella sua immensità. Dopo un’ora planiamo come un enorme uccello nel cuore della foresta con l’atterraggio più spettacolare che si possa immaginare: morbido, quasi silenzioso, senza scosse, tra due quinte di verde su un nastro di acqua color ocra.

Solo dopo vediamo le case, la gente coi borsoni e le valigie, i bambini che affollano il pontile. Aspettano da ieri, chi per andare in città a comprare qualcosa di introvabile qui nel mezzo della foresta, qualcuno per andare in ospedale. Il dottore di turno, dall’aria stanca e un po’ sdrucito, capelli e barba lunghi, aspetta il suo rimpiazzo che, in camicia bianca, impomatato e sbarbato, viaggiava con noi. Alcuni sono lì per ritirare un pacco: pezzi di motore, attrezzi, persino televisori al plasma di proporzioni ragguardevoli. Sbarcati noi e scaricata la stiva, solo 14 persone saliranno a bordo dell’idrovolante. Gli altri dovranno aspettare la settimana prossima.

L’attesa in molte parti del mondo è la quotidianità. Siamo noi, campioni del “just in time”, che non sappiamo più cosa sia e ci facciamo prendere dal panico. Ma quanto meno interessanti sono le cose che vanno lisce lisce, secondo i programmi? O se preferite, quanto seducenti sono le cose che vanno per conto loro, senza seguire troppo la scaletta, riuscendo a sorprenderci ribaltando le nostre aspettative?


Prima del viaggio si scrutano gli orari,

le coincidenze, le soste, le pernottazioni

e le prenotazioni [….] si scambiano valute,

[….] si controllano valigie e passaporti […]

E poi si parte e tutto è OK e tutto

è per il meglio e inutile.

E ora che ne sarà

del mio viaggio?

Troppo accuratamente l’ho studiato

senza saperne nulla. Un imprevisto

è la sola speranza. Ma mi dicono

che è una stoltezza dirselo.

Eugenio Montale, Prima del viaggio, da Satura 1971


LIBRO CONSIGLIATO: La caduta del cielo, di Davi Kopenawa

COLONNA SONORA: Canopy Soundscape near Iquitos, dal progetto (grandioso) Nature Soundmap

ACCOMPAGNATO DA: arroz con uova, platano e yucca fritti. Qui vi metto una ricetta per il platano fritto e qui una per la yucca, anche se non sarà mai come mangiarli dondolandosi su un’amaca nel mezzo della foresta.


#Iorestoacasa, certo, ma il mio mantra è #torneremoaviaggiare.

Siamo fermi. A casa. A terra.

Viaggi cancellati. Voli annullati. Bagagli disfati.

Siamo in castigo. La natura ci ha messo in un angolo a meditare sulle nostre malefatte. Inutile recriminare. Siamo fermi e ci resteremo per un po’. A data da definirsi.

Programmi, progetti, prenotazioni sono stati rimpiazzati da vaghe previsioni.

Una reclusione che ci farà venire ancora più voglia di partire, ma che sarebbe un peccato non sfruttare per ripensare anche il nostro modo di viaggiare. E per renderlo più sostenibile.

Possiamo disperarci per questo stop forzato, oppure possiamo prendere in mano il mappamondo, indagare cartine, costruire nuove strade, immaginare traiettorie alternative.

#torneremoaviaggiare
Padrão dos Descobrimentos, Belém, Lisbona

In questo blog vorrei riempire il vuoto del #iorestoacasa e accompagnarvi a immaginare cosa faremo quando finalmente #torneremoaviaggiare.

Cerco compagni di viaggio con cui condividere evasioni virtuali in giro per il mondo. Brevi incursioni nei paesi che amo di più, per scoprire storie, libri, arte, musica, cibo.

Allacciate le cinture di sicurezza. Cabin Crew ready to take off.

LIBRO CONSIGLIATO: Che ci faccio qui?, di Bruce Chatwin

COLONNA SONORA: Hitch Hikin’, di Bruce Springsteen (Western Stars, 2019)


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